28 novembre 2014

LE 10 COSE CHE MI SPACCANO I MARONI IN UN RISTORANTE



Disclaimer: quanto segue non è ovviamente inteso per tutti i ristoranti cui è capitato di rifocillarmi.  Anzi, in Italia esistono ancora molti posti nei quali fermarsi a mangiare può essere un’esperienza davvero speciale.  Solo che bisogna conoscerli e trovarseli - le guide spesso celebrano ristoranti che per me potrebbero anche chiudere.  “De gustibus…”, si dirà.   Ma è vero che entrare a caso in un posto e mangiar bene è circostanza sempre più rara, e talvolta anche tornare dove ci si è trovati bene in passato può riservare grosse delusioni.  Quindi, non me ne vogliano i ristoratori tutti… anzi, credo che coloro i quali fanno la buona cucina con passione, dedizione, onestà e professionalità non possano che essere d’accordo con me.  Dopotutto, ogni tanto andranno a mangiar fuori anche loro.  O no?


LE 10 COSE CHE MI SPACCANO I MARONI IN UN RISTORANTE


Spesso diamo per scontate cose che non lo sono affatto.  
Una di queste è che se vai al ristorante mangerai bene, nel senso di “ancor meglio che a casa”, o almeno “bene come a casa”; effettivamente, in un mondo in cui regnasse la logica sarebbe così, per il semplice motivo che cucinare dei buoni pasti e servirli con cortesia e professionalità è esattamente ciò che un ristorante ha come causale della propria esistenza.  Il fatto poi che la cucina - e il bere che l’accompagna - siano anche un elemento di cultura ed espressione dell’identità di un popolo - questo magari lo affronteremo altrove.  Oggi  mi va di parlare del volgarissimo “mangiar fuori”.

Per quel che mi riguarda, la frase “in quel ristorante si mangia bene” è un’assurdità.  “Come sarebbe?” - dicono le voci nella mia testa - “In ogni ristorante si deve mangiar bene.”  Ma porca vacca, se un tale decide di aprire un ristorante invece che - mettiamo - un porno shop, si suppone che lui, o chi lavora per lui, sappia far da mangiare, e sia anche in grado di servirlo ai suoi clienti nel migliore dei modi.   E invece non è sempre così e tutti lo sappiamo.
Lo dico chiaro, e senza finta modestia: io so cucinare.  Ve lo confermerà mia moglie, la mia famiglia, e i miei amici più stretti che vengono a cena da me; la buona cucina è per me una grande passione, un’arte, è un po’ come dipingere - ci vuole ispirazione, gusto, tecnica, istinto, inventiva.  E naturalmente materia prima di qualità. 
Questa mia dote ha però dei risvolti negativi, il più fastidioso dei quali è che quando vado a mangiar fuori ho aspettative di standard culinari e professionali che il più delle volte vengono disattese.  E solitamente, dopo aver mangiato male - o mediocremente - e speso 6 volte quello che mi sarebbe costato lo stesso pasto preparato molto meglio da me nella mia cucina, m’incazzo.   Secondo la mia angusta visione del mondo, chi intendesse aprire e gestire un ristorante, dovrebbe prima conseguire uno speciale attestato a dimostrazione che sia effettivamente in grado di farlo, e non mi pare funzioni così.  Il risultato è che ci sono in giro parecchi ristoranti e trattorie che starebbero meglio chiusi che aperti.  Dico cazzate? Bah. Il fenomeno è così esteso che perfino i media se ne sono accorti e ne hanno fatto un format televisivo di grande successo come “Cucine da incubo” in tutte le versioni internazionali, programmi di gastronomia, talent-show culinari, Master Chef in tutte le lingue etc.  
Morale della favola: io normalmente vado a mangiar fuori soltanto se devo farlo, magari perché in viaggio, o perché non ho fatto la spesa, oppure perché ho voglia di qualcosa che non avrei modo o tempo di cucinare a casa.  Certe volte è solo voglia di azzannare un che di diverso - o al limite anche ordinario - senza però dover sporcare e aromatizzare tutta casa, e dover ripulire.
Nei mondo dei cartoon, uno entra in un ristorante, si siede, esamina il menù, ordina il suo cibo e il suo beveraggio, poi non deve far altro che rilassarsi e gustarsi un buon pasto servitogli da chi della buona cucina ha fatto la sua professione.  Nella realtà, invece, questa semplice cosa è un po’ meno automatica di quanto non si possa supporre. 
Ecco le (prime) dieci cose che mi spaccano i maroni in un ristorante.


1) PERSONALE ANTIPATICO 

La prima cosa che può rovinarmi l’appetito, è arrivare in un posto e imbattermi subito nel personale antipatico, scortese, incapace o supponente.  Vero, al ristorante ci si va per mangiare, non per diventare amici del cuore di chi lavora lì; ma se a riceverti è una creatura non morta i cui muscoli facciali preposti al sorriso sono atrofizzati da secoli di disuso, allora le cose prendono tutta un’altra piega, e la tentazione di girare sui tacchi e uscire si fa pressante (l’ho fatto un’infinità di volte e lo rifarò).  Il personale antipatico non si limita a non sorridere:  ecco alcuni (ma non tutti) esempi di cose che fa la persona antipatica addetta a gestire la sala e servire ai tavoli, specialmente il tuo:
  • appena entri cerca subito di rifilarti il tavolo peggiore (anche se la sala è mezza vuota), e solo quando vede che stai fissando la scritta “EXIT” cede, e con un sospiro scocciato ti concede il tavolo che vuoi tu.
  • sparisce in cucina e non si fa vedere per un bel po’, ma quando riappare, è per portare i menù a una coppia arrivata ben dopo di te, che si è seduta da sè dove minchia gli pareva.
  • quando finalmente viene al tuo tavolo, lui/lei ti piazza davanti i menù e sta lì malcelando segni di impazienza, come avesse altro da fare; sventuratamente, ogni cosa che tenti di ordinare “oggi non c’è”, e te lo dice come se fossi tu lo stronzo che in venti pagine di menù va a beccare proprio ciò che stasera non hanno. 
  • Insiste per farti ordinare piatti che evidentemente devono sbolognare a tutti i costi, e se opponi resistenza ti guarda come si guarda un troglodita mai entrato in un ristorante prima d’ora.
  • Se hai domande sulle pietanze (es: c’è l’aglio? si può avere senza crescione?), nei suoi occhi spenti appare il bagliore dell’incertezza, e siccome infatti non sa un cazzo, per ogni domanda che gli fai deve andare chiedere in cucina.
  • finalmente riesci a ordinare qualcosa, ed ecco che arriva la fatidica frase “però mentre aspettate vi facciamo assaggiare…” e nomina qualche specialità dello chef che va assolutamente provata;  questo “assaggio” te lo ritroverai sul conto e si rivelerà la cosa più cara che non volevi mangiare.
  • ordinare il vino merita un paragrafo tutto suo.
  • Sei in dolce compagnia? Bene.  I piatti arriveranno a tempi sfasati, prima il tuo, e più tardi quello di chi è con te, che nobilmente ti dirà  “mangia, mangia pure… non preoccuparti”, ma tu non faresti mai una cosa simile e aspetti.  Mangerai freddo. 
  • Tenta più volte di portarti via il piatto prima che tu abbia terminato;  quando invece hai finito davvero, ti lascia davanti i piatti sporchi per sempre, mentre fa avanti e indietro con la cucina a mani vuote.  
  • Ti snocciola la lista dei dessert a velocità supersonica, non capisci niente e statisticamente ordini il primo che ha detto anche se ti fa schifo - pur di non dovergli richiedere il menù.
  • Il conto non te lo porta mai; improvvisamente ti ama e vuol tenerti lì più a lungo possibile.  Quando finalmente te lo consegna, lo esamini e ci trovi una bottiglia di acqua che non hai preso, l’assaggio (carissimo) che non volevi, l’insalata che sì, avevi chiesto, ma che non ti è mai arrivata.

Nota bene: le volte che ti capita il personale antipatico, succede anche che il servizio è incluso nel conto, quindi stai lasciando una mancia anche consistente a qualcuno cui vorresti nottetempo spianare il locale con un bulldozer.


Appello ai ristoratori: quando mettete una persona a contatto col pubblico, sappiate che state affidando nelle sue mani l’immagine stessa del vostro locale!  Perciò, in sala metteteci qualcuno che sia felice di fare quel lavoro, perché se non lo è, si vede e ciò produce effetti disastrosi.   Attenzione! Ho detto “felice”, non “zelante”.  Una persona zelante e saputella che ti serve a tavola, e ti vuole insegnare come si mangia e come si beve (anche se magari ha trent’anni meno di te) è altrettanto micidiale. 



2) QUANDO IL VINO NON ARRIVA o arriva sbagliato

Come promesso sopra.  
Il vino - mi dicono certi miei amici ristoratori - è dove il ristorante guadagna.  Ho sempre creduto che il business di un ristorante fosse il cibo, e invece no: è il vino, e gli alcolici in generale.  Ecco perché non mi spiego come mai ordinare il vino - ed averlo davanti a te in tempo utile per non cominciare a trasformarti in Mr Hyde - possa rivelarsi un’operazione così sofferta. (Il sottoscritto beve solo vino bianco - estate, inverno e con tutte le pietanze, e questo già di per sé genera sopraccigli alzati sul volto dei più saputelli.)  
Comunque sia, eccoti lì seduto in un ristorante, stanco e provato da una lunga giornata, che uccideresti tua zia o anche quella altrui per un bel bicchiere di vino.  Sai già più o meno quello che vuoi, menzioni due o tre marche e tipi abbastanza comuni, e per tutta la risposta ti piazzano in mano una lista vini alta come il fascicolo processuale di Totò Riina.  Ti scoraggi.  Fingi di sfogliare quel mattone e infine ordini la bottiglia che ti sembra meno esosa a livello qualità - prezzo (anche perché sai benissimo quanto ti costerebbe la stessa bottiglia andandotela a comprare tu al super).  “Bello freddo, mi raccomando” aggiungi pleonasticamente.
Dopo un lasso di tempo inesplicabile (dove cazzo l’andranno a prendere?), ti vedi arrivare una bottiglia a temperatura ambiente, e di un’annata che secondo i tuoi standard può essere usata per fare i dolci.   “Glielo mettiamo subito nel ghiaccio” è l’immancabile rassicurazione… (Sì, così fra un sei-sette ore si potrà bere… ma se non ce l’avevano già in frigo perché non te l’hanno detto subito?).  E’ qui che generalmente si innesca l’inutile solfa che hai sentito mille volte su quale sia la temperatura giusta del vino, una solfa che ti ha rotto i coglioni e che stronchi sul nascere con un “a me però piace freddissimo, e per cortesia dell’annata corrente?”.  Anche l’annata suscita disquisizioni saccenti, ma poiché molta gente beve il rosso - e quello sì, può invecchiare - non voglio andare fuori tema.  Dirò solo che conosco pochissimi bianchi che possono invecchiare un pochino e quelli non li ordinerei certo in un ristorante perché costerebbero una cifra infame.  
Alla fine, non riesci ad avere il tuo cazzo di vino freddo come lo vuoi, e quando finalmente ti arriva, sta arrivando anche il cibo, per cui sarai privato di quei momenti di nobile relax con un bicchiere in mano cui aspiravi di più, prima di imbarcarti nella volgare opera della masticazione e deglutizione.
Perché in quasi tutti i ristoranti questa storia del vino si ripeta identica a sé stessa è un fenomeno che va al di là delle mie facoltà intellettive. 
Col tempo, ho escogitato due trucchi per aggirare il problema: 1) mi rifiuto di ordinare da mangiare finché non mi hanno portato il vino giusto e 2) piuttosto che iniziare il tira-molla, vado subito al frigo dei vini - generalmente visibile - ne esamino il contenuto e ordino uno di quelli.  Sareste sorpresi di sapere che anche così, non sempre riesco ad averla vinta.   Come fa il resto dell’umanità?  Non lo so.  Forse si accontenta e si becca ciò che passa il convento, o ha soggezione a insistere per avere quello che vuole, o non dà a questo elemento cultural-gastronomico l’importanza che gli dò io.  Forse sto solo invecchiando e diventando rompicoglioni.
Ma quando ho ospiti a casa, non gli lascio percorrere neanche un metro oltre la porta d’ingresso senza aver messo loro in mano un bel bicchiere di vino buono.  Nessuno si è ancora lamentato.



3) LE LUCI DA TELENOVELA

Avete presente quelle telenovelas, in cui i protagonisti passano un’intera puntata seduti in un ristorante - a spiegarsi fra loro certe parti della trama che gli autori hanno deciso di narrare così invece che fargliele recitare - mentre mangiano e bevono roba finta sotto i riflettori accecanti?  Ecco, le luci nella maggior parte dei ristoranti sono così, come se intorno al tuo tavolo ci fosse una troupe che sta girando la telenovela della tua vita, con luci, cavi, e macchine da presa e tutto.  Ogni tanto ti aspetti che fra un boccone e l’altro si materializzi la truccatrice a incipriarti il naso o la pelata che luccica; e sarebbe anche divertente una volta o due.  Solo che a te non ti pagano per stare lì sotto le luci della ribalta, anzi, a pagare sarai tu.  
E’ incredibile, ma anche molti fra i migliori ristoranti che non hanno nessuna delle pecche enunciate qui, vanno a cascare sulle luci sbagliate.  Le luci sono la componente essenziale di un fenomeno misterioso cui hanno dato il nome di “ATMOSFERA”, cosa che non so definire ma associo a concetti come “crepuscolo”, e “intimità”.   L’atmosfera, in un ristorante, o c’è o non c’è… quando c’è può farti perdonare tante altre magagne…  quando non c’è, ti può rovinare una cena che avresti voluto romantica e rilassante.  Per un curioso fenomeno, nei ristoranti, più forti sono le luci e più casino c’è - la gente tende a parlare a voce molto più alta nei posti più illuminati.
Vi prego, fate qualcosa.  O ci dobbiamo portarci le nostre candele da casa (e relative fionde per spegnere i fari superflui)?


4) IL MENU’  A VOCE


Il menù a voce, recitato in un’unica tirata clerical-gregoriana col sottinteso presupposto che dovrai prendere una decisione istantanea su tutto il pasto in tempo reale - è un’altra cosa che mi fa cascare le budella sotto il tavolino.  Intanto, nel menù orale non ci sono i prezzi - cosa inevitabilmente foriera di sorprese al momento del conto.  Poi, siccome “verba volant”, riesci a carpire solo le prime tre cose dette, e il resto lo perdi nel vortice dei tuoi pensieri;  quindi ordinerai quello che hai capito, per poi vederti passare sotto il naso qualcos’altro che avresti gradito di più, ma diretto verso un’altro tavolo; “ah, ma avevate anche quello?” bisbiglierai con discrezione al cameriere, e lui/lei con smorfia sado-saccente risponderà “certo, gliel’avevo detto!”.  
Col menù orale spesso cercano anche di appiopparti piatti che, se scritti nero su bianco in un menù cartaceo, potrebbero stimolare quesiti cui il personale non è ansioso di rispondere - come ad esempio a quando risale l’arrosto misto - una roba non facile da cucinare nei tempi standard della permanenza di un essere umano in stato di veglia al tavolo di un ristorante - o quanto ci vuole per il risotto ai frutti di mare (che a quanto mi risulta da chef richiede una preparazione globale di un paio d’ore più i venti minuti materiali della cottura del riso).  

Per la cronaca, ho identificato quattro tipi di menù:
  
  1. quello rilegato in cuoio, con le portate scritte in stile calligrafico monachense; questo tipo di menù lo si trova generalmente nei ristoranti storici che fanno da anni le stesse cose e tu sai che se vai lì mangerai quelle.  Un bene per molti, una noia mortale per altri, ma per lo meno ci si può contare e sai cosa ti aspetta.  
  2. quello stampato su un foglio A4 - qua e là qualche portata cancellata a penna o aggiunta a matita.  Questo lo si trova nei posti con aspirazioni (e arredamenti) più modernisti, e denota una cucina in genere creativa e d’improvvisazione.  Quando vi mettono davanti quello, siete nelle mani del destino, vi può andare bene-benissimo, o male-malissimo.
  3. quello scritto a mano su una lavagna ben visibile appesa al muro.  Questo a me non dispiace, vuol dire che lo chef fa la spesa giornalmente e cucina le cose migliori che trova, e poi scrive sulla lavagna il menù del giorno.  Oltre alla promessa di una cucina genuina e di stagione, questo menù è un ottima lettura nei momenti di attesa. 
  4. quello orale di cui a questo paragrafo.  Per me, il peggiore. 

Ma c’è un altro tipo di menù di cui diffido, quasi sempre con buone ragioni: quello che mette gli articoli davanti al nome delle pietanze, con frequente uso dei diminutivi: “gli gnocchetti dello chef”, “lo sformatino di melanzane primavera”, “la polpettina alle erbe aromatiche”, “il frittino del pirata” etc…  Quando ti portano un menù con queste caratteristiche, per la mia esperienza personale, mangerai delle cagate pazzesche.


5) IL SALE


Ultimamente pare che il sale tenda ad essere molto ridotto - se non addirittura omesso - nelle preparazioni di parecchi ristoranti.  Per quanto mi riguarda, un piatto che manca di sale è un piatto cucinato male.  Il sale aggiunto durante la cottura esalta i sapori e porta in auge le caratteristiche naturali di una pietanza;  sono cresciuto in una cultura tribale ed arcaica in cui il sale deve essere giusto: né troppo, né troppo poco.  Se interrogati in merito a un piatto che manca di sale, spesso i camerieri o chi ti serve a tavola rispondono con un confidenziale “sa, a molta gente il sale non piace, o fa male” (‘sticazzi, vorresti rispondere, ma serri le labbra per paura che ti sputino nel prossimo piatto) e così loro ti portano la saliera per aggiungerlo lì per lì.   A parte il fatto che le saliere nella stragrande maggioranza dei ristoranti hanno gli appositi buchetti tappati e il sale non scende neanche a cazzotti, ma salare una pietanza già cucinata è un crimine quasi peggiore che mangiarla “sciapa” o “sciocca” o come cacchio dite nella vostra zona.  
Quando esattamente sia avvenuta la messa fuorilegge del sale è informazione che mi manca.  Un tempo esso era così prezioso che la gente veniva pagata in sale piuttosto che in soldi (da cui il termine “salario”).  Certo, troppo sale fa male alla pressione, o favorisce un accumulo di liquidi in zone sgradite, e perciò molta gente preferisce limitarlo o mangiare scondito.  Ma mettere tutti a dieta ospedaliera forzosa mi pare un abuso da ritenzione di carta di credito al momento del conto.  Secondo il mio modesto avviso se uno non vuole mangiare col sale, basta che lo dica prima, perchè penalizzare tutti, e costringerti a salare un arrosto o un pesce dopo che è stato cucinato è roba da pervertiti.  Ditemi una cosa buona che non faccia male in dosi eccessive, e giuro che non ve la offrirò se passate da casa mia.  Ma nel frattempo, facciamo come facevano le nostre - e le vostre -  nonne: saliamo il nostro cibo in modo giusto.

6) IL CRUDO

A un certo punto nella storia recente ha fatto la sua comparsa nei ristoranti nostrani il “crudo”, inteso come “pesce crudo”.   A parte che il pesce crudo lo si mangiava da sempre nei ristoranti giapponesi - dove però te lo preparano meticolosamente secondo tradizione nipponica - qui in Italia il crudo è né più né meno che pezzi di pesce crudo - e crostacei annessi - sbattuti su un piatto di portata e serviti a tavola per così dire “nature” con qualche spicchio di limone intorno…  
Ora io seriamente mi domando per quale motivo uno, per mangiare una roba non cucinata, dovrebbe uscire di casa e andare al ristorante a farsi spennare, quando di roba cruda può ingozzarsi fra le mura domestiche a interessi zero.  Personalmente, se mi venisse un raptus da pesce crudo, andrei a mangiarmelo direttamente dal pescivendolo (equipaggiato di mio vino freddo giusto), eludendo così i vari anelli della catena commerciale che porta i prezzi alle stelle.  Solo lì, dal pescivendolo sai che pesce mangi perché lui lo sfiletta davanti a te, mentre in un ristorante devi fidarti di quello che ti dicono…   A parte il tonno - che si riconosce perché rosso scuro - e lo spada - che è rosa pallido-grigiastro - chi può distinguere un carpaccio di orata del nostro mare da fettine di ombrina francese o spagnola? Chi può distinguere un carpaccio di branzino pescato in mare da quello di un branzino di allevamento?  Quanti di noi sanno riconoscere le varie tipologie di gamberi, scampi e mazzancolle? Ma andiamo!
Ciononostante, appena ti siedi e prendi in mano il menù arriva il tipo che ti dice subito “ma oggi, fuori menù, abbiamo anche un crudo da favola” senza però informarti di quanto costa.  Se sei così ingenuo da cascarci, ti ritroverai un conto ugualmente “da favola”.   E quando innocentemente chiederai: “non per fare lo stronzo, ma manco me l’avete cucinato, dunque perché me lo fate pagare il triplo di quello al forno?”  E loro si lasceranno scappare un inequivocabile “perché, signore, quello crudo è freschissimo!”….   Ahhhhhhh, beh!  Adesso ho capito!  Ho capito che quando il pesce me lo cuoci non è fresco!  
Detto fra noi, il pesce crudo è fresco ‘staminchia, perché per essere consumato senza rischi di gravissime patologie, il pesce crudo deve essere preventivamente stato congelato per almeno 96 ore ad almeno -20 gradi.  Pertanto, quello del banco dei surgelati al supermercato è teoricamente più pregiato, perché viene congelato già sulle navi, appena pescato. 



7) FAMO FINTA DE MAGNA’


Ho scarsa dimestichezza con la nouvelle cuisine italiana, essendo molto più ferrato su quella francese, ma ho potuto identificare una differenza sostanziale fra le due:  nella nouvelle francese, “se magna”- per dirla nel mio dialetto natio - mentre in quella italiana no.  Senza alcun intento di generalizzare troppo, dirò che la nouvelle francese offre svariate portate organizzate secondo un certo schema di sapori - partendo dal pesce, continuando con insalate, proseguendo sulle carni per arrivare ai dessert - e le porzioni sono abbondanti.  La nouvelle italiana invece offre piccole porzioni di molte cose senza un ordine apparente, che privilegiano il sapore originale degli alimenti lasciandolo il più intatto possibile; ma alla fine - dopo aver pagato una cifra che molti incluso il sottoscritto trovano astronomica - uno si alza, esce, e si dirige come un razzo nella pizzeria di fronte.  Devo precisare - ad evitare insurrezioni culinar-filosofiche e minacce di morte, che parlo per la mia esperienza e gusto personali, avendo sperimentato molta nouvelle francese e poca nouvelle italiana.  
Qui, me la prendo in particolare con quei ristoranti che se la tirano da cenacoli esclusivi e ristretti per gourmet di alto lignaggio, dove alla fine si mangia poco, si spende tanto, non sai esattamente cosa hai mangiato, ma sai che non era abbastanza e quando esci hai più fame di quanta ne avevi prima di entrare.
Invece di spiegare questo tipo di posti, racconterò un aneddoto il cui protagonista - un caro amico che chiamerò col nome fittizio di Dott. DeMagno (lui non sa che io so) descrive con una sola, breve frase quello che io stesso penso di ristoranti simili.  
Dunque una sera il Dott. DeMagno - uomo amante della buona cucina servita in porzioni generose - si lascia coinvolgere a cena in uno di questi ristoranti che se la tirano da alta cucina creativa.   Arriva la scaglietta di pecorino sardo su crema di fave.  Arriva una tazzina di sformato di zucchine con gamberetto all’aceto balsamico piantato su.   Arriva un medaglioncino di lombatina di maiale su letto di crema di prugne e datteri.  E così via.  Il tutto servito cerimoniosamente, come se lì dentro si stesse celebrando un rituale antico.   Il DeMagno - che finora ha mantenuto un contegno impeccabile pur guardandosi nervosamente intorno, si alza, poggia il tovagliolo sul tavolo, si avvicina al maître d con un sorriso complice, e gli bisbiglia all’orecchio “famo finta de magnà, famo finta de pagà…”, e torna a sedersi.  Cinque minuti dopo gli viene servito un nouvellissimo piattone di spaghetti al pomodoro fresco - fatti a regola d’arte.  Ecco, io questi posti così li evito.


8) LE COSE CHE NON SONO QUELLE 

Questo paragrafo ha vagamente a che fare coi ristoranti che se la tirano di cui sopra, ma non hanno il coraggio di tirarsela fino in fondo, e così si fermano a metà strada.  Apparentemente, sono infatti ristoranti normali, arredamento sobrio, arte postmoderna alle pareti, impercettibile musica lounge negli speaker, personale sorridente anche se in modo un po’ robotico.  Il menù ha tutte le cose che rassicurano l’affamato viandante o la coppia determinata a cedere alle tentazioni della gola, ma attenzione! L’ignoto si nasconde dietro innocenti diciture come “gnocchetti alla carbonara”,  “Tagliolini misto bosco”, “Scampi alla villanella”, “Stinco di maiale glassato con cipolle primavera”,   “Filetto di orata al pomodoro di Sicilia)  e così via.  Ordinate fiduciosi, sia pure un po’ sorpresi che vi propongano esclusivamente vino biologico (perchè biologico? lo vendemmiano in un laboratorio di analisi?) e restate in attesa.  Ignari che gli “gnocchetti alla carbonara” hanno - invece del guanciale o della pancetta - dei dadini di tofu rosolati nella margarina, sono annegati in una salsa di latte di yogurt e curry, e il parmigiano non ci va;  i “tagliolini misto bosco”, invece, sono tagliolini integrali biologici in salsa di castagne e mirtilli (e un funghettino di guarnizione); gli “scampi alla villanella” sono due scampi apparentemente crudi, nudi, e piantati verticalmente in un tortino di purè di fave, piselli e zucchine”.  OK, e l’orata al pomodoro siciliano? Almeno quella sarà lei?  No.  E’ lessa, ricoperta di un trito di pomodori secchi e zucchine crude juilienne ed ha accanto una pozza di salsa al vino rosso.
Se vi imbattete in uno di questi ristoranti, inutile protestare. Riceverete sorrisetti di sufficienza, disquisizioni dotte, e il conto con troppo sale.   Non vi resta sfogarvi su Trip Advisor, se ciò vi placa.



9) LE FINTE TRATTORIE 

Le finte trattorie si annidano un po’ dovunque, sparse uniformemente sul territorio.  Ma come per i finti dentisti, le riconoscerai troppo tardi, quando ormai ti hanno intrappolato.  Fuori c’è scritto “trattoria”,  hanno l’aria tradizionale di una volta, muri stinti, pavimenti a mattonelle esagonali color rosso scuro, nero e beige, quadri di paesaggi anonimi alle pareti, e nell’aria odore di roba buona… tutto come da copione.  Ma se fai attenzione ai dettagli, invece della solita tovaglia a quadretti bianchi e rossi da trattoria, i tavoli sono apparecchiati impeccabilmente, tovaglie immacolate di cotone spesso, lo styling è da copertina di mensile di cucina, i bicchieri sono quelli da vino di alto rango (cioè alti, grandi e sottili invece che bassi, piccoli e spessi) e le posate raccontano di argenterie londinesi perdute.  Ti guardi intorno, chiacchiericcio moderatamente sommesso, gente ben vestita, stirata e curata.  “Questa non è esattamente una classica trattoria” pensi, ma ormai ci sei dentro e arriva un tipo sorridende - il manager o il padrone, o ambedue - che ti dà il benvenuto e insiste per prenderti il cappotto o la giacca, che tu invece vuoi tenere sulla spalliera della sedia.  Vince lui.  Il menù è grande - nel senso dei centimetri quadri - ma non vastissimo come numero di portate (sempre un segno di buona cucina), e tutto sembra buono.  Sotto sotto, sei contento di essere finito qui piuttosto che in un postaccio bisunto e caciarone, ma in origine cercavi una trattoria da camionisti, e qui sai che prenderai una legnata epocale, iniziando dai primi a 18€ ai secondi che vanno dai 35 ai 60€.  Ordini con cautela (del resto sei a dieta), un primo, vino della casa, un caffè con due biscottini.  Ma fra pane (che non tocchi perché hai preso solo la pasta), coperto, vino, e il caffè, e il servizio incluso - malgrado ti abbia servito il padrone - alla fine non te la cavi con meno di 70€.   Esci soddisfatto per aver mangiato bene, ma pensando che una pasta per 70€, con Ryan Air, potevi andartela a magnà a Parigi, volo incluso, e tornare in tempo per lavorare ancora un’oretta.  Pensi anche, minchia, se sei un ristorante a quattro stelle che cazzo scrivi “trattoria” sulla porta?



10) QUANDO SI MANGIA MALE

Ci sono decine di cose che possono infastidirmi in un ristorante, ma quella che mi fa incazzare di più - e che infatti lascio per ultima - è la più ovvia: mangiar male.  Lo accennavo all’inizio, ma lo ripeto: se uno apre un ristorante invece che un’altro tipo di attività, ha il dovere civile di saper cucinare bene e di saper servire i suoi clienti con professionalità.  A cucinare male si fa la stessa fatica che a cucinare bene, e allora mi chiedo: perché?  Se uno fa il meccanico e ti rompe la macchina; se uno fa il dentista e ti rovina i denti; se uno fa il coiffeur e ti dà fuoco ai capelli; se uno fa il muratore e ti distrugge casa; se uno fa il chirurgo plastico e ti ritrovi senza naso - tu persona normale prima di tutto non paghi, poi se sei intraprendente e credi nel sistema giuridico italiano chiami il tuo avvocato, fai causa e chiedi i danni.  Non capirò mai perché, invece, i ristoranti in cui si mangia male continuino indisturbati ad operare rovinando le giornate e le serate a gente innocente che con le migliori intenzioni abbia la sventura di entrarvi, né mi capacito di come mai tali luoghi di disappunto e raggiro possano restare in attività senza problemi (eccetto quando non avvelenino qualcuno al di là di ogni ragionevole dubbio).  
Ultimamente - e dopo aver vissuto lunghi anni all’estero e viaggiato parecchio - ho notato  con stupore un generalizzato scadimento della qualità del cibo e del servizio in molti ristoranti italiani - oltreché una faciloneria estrema con cui della gente con un minimo di capitale dietro le spalle decida di buttarsi in un business complesso e specifico come quello della ristorazione senza le basi più elementari di cosa significhi avere e gestire un ristorante.   Al punto che ormai quando scopro un posto dove si mangia bene lo dico a tutti, come avessi trovato la lozione per far ricrescere i capelli ai calvi.  Oggi, nell’era dei talent show, penso seriamente che dovrebbe esistere una commissione para-ministeriale - composta di clienti, di chef, e di psicoterapeuti - preposta a vigilare sulla qualità dei ristoranti e la sanità di mente dei relativi ristoratori presentandosi a sorpresa a mangiare qui e là, e ove sia il caso sospenda o revochi la licenza a quegli esercizi che non sono all’altezza di svolgere la nobile arte della buona cucina.   
La cucina italiana - come il design - è uno dei nostri punti di orgoglio più preziosi dei quali ci vantiamo - già abbondantemente minacciata qui da noi e nel mondo da ciarlatani, impostori e improvvisatori.  Perché - lo dico fieramente - la cucina italiana appartiene a noi italiani, e nessuno se ne abbia a male.
Ultimamente si moltiplicano in TV programmi e canali basati sull’arte della cucina.  Vediamo chef più o meno famosi insegnare in totale buona fede i loro segreti a tutti, e mostrare come la cucina non sia poi una roba così complicata.  E allora mi chiedo: ma se tutti i bravi chef italiani sono a cucinare in TV, nella cucine dei ristoranti, chi c’è?

Sergio Caputo


(*) se volete scrivermi, scrivete a myblogz@sergiocaputo.com







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ALBERTO STOCCO

Sergino me lo so letto tutto. E ' un manuale di formazione continua per ristoratori . Personalmente sono appassionato di ristoranti e vino. Mi piacciono i non luoghi . E anche se a casa mia si mangia tipo restaurant ,per merito della mia compagna artista della cucina , amo molto , appena possibile , mettere alla prova le papille . Concordo sul 98per cento di quello che hai scritto. Integro con le seguenti deduzioni , che ti prego di esaminare: 1) piatti con troppi ingredienti annunciati: tipo "filetto di pangasio in salsa di finocchio con mandorle e pomodori confit e richiamo di porto barrique 1901 ( commento " vaffanculo portami un pesce buono il resto lo decido io") 2) menù a voce: la recitazione del menù crea un rapporto mafioso col dicitore ( del tipo: bello nun c hai scampo, pijate la cosa che ho sottolineato mentre parlavo, sinno' so cazzi tua". ) 3) in genere diffidare dei menù con più di 6/7 portate di primo e secondo 4) vino: concordo sullo sguardo preliminare ai frighi 5) aggiungo che uno sguardo anche al carrello dolci non fa male. 6) in ogni caso se appena ci si siede si avverte sensazione di pentimento alzarsi sempre senza remore e salutare educatamente. Ciao. Alberto